L’Amicizia come chiave ermeneutica della
Divina Rivelazione
nei primi due capitoli della Dei Verbum
La Pulzella propone la lettura di un suo antico lavoro universitario
circa il concetto di Amicizia intesa come virtù cristiana.
Si tratta di uno sguardo panoramico in compagnia di Dante, Cicerone e il Beato Aelredo abate.
(Dedicato a chi pensa che la Pulzella sia una reazionaria nostalgica e "non allineata" allo spirito conciliare, chiusa nei suoi preconcetti contro il Vat. II. Ella dimostra che, al contrario, ne è una buona conoscitrice e perciò si può permettere il lusso di tanta franchezza nel muovere qualche critica.)
I PARTE: “Come amico mi perdona/
se troppa sicurtà m’allarga il freno” (Purg. XII, 19ss)
ossia: l’uomo chiamato ad essere interlocutore di Dio attraverso
l’amicizia
La costituzione dogmatica sulla
Divina Rivelazione, dopo il proemio in cui la nota dominante sembra uscire da
una forte caratterizzazione giovannea, su cui ritorneremo più avanti nel corso
di questo nostro lavoro di ricerca, contiene, nel § 2 del primo capitolo il
passaggio da cui prende le mosse la presente riflessione sulla amicizia come
chiave ermeneutica della Divina Rivelazione: “ex abundantia caritatis suӕ homines tamquam amicos alloquitur”.
Tale passaggio del testo sembra
essere la citazione e, in qualche modo, la rielaborazione in chiave unitaria
che il documento conciliare fa di due passi del Vecchio e del Nuovo Testamento.
Il primo, tratto da Ex. 33, 11 cita:
Loquetur autem Dominus ad Moysen facie ad faciem, sicut solet loqui
homo ad amicum suum.
Il secondo, invece, collocato nel
discorso di commiato di Gesù dai suoi apostoli in Jo. 15, 14-15, riferisce:
Iam non dicam vos vos servos, quia servus nescit quid faciat dominus
eius. Vos autem dixi amicos: quia omnia quaecumque audivi a Patre meo, nota
feci vobis.
Ecco dunque che ci vengono
offerti alcuni validi spunti per un ulteriore riflessione:
a)
Perché la scelta dell’amicizia come terreno / spazio di
incontro tra Dio e l’uomo?
Già Cicerone
nel suo celebre dialogo sull’amicizia, il Laelius de amicitia, appunto, testo
chiave e imprescindibile per altro per tutti coloro che nei secoli successivi
si sono confrontati con questo tema, produce un afflato divenuto poi classico: Amicitia est rerum humanarum et divinarum
cum benevolentia et caritate consentio[1].
In epoca
Medievale, con ancora più acume ed in chiave cristiana, questa volta, il Beato
Aelredo, abate cistercense di Rievaulx, ritorna sul tema già svolto dall’Arpinate
e ne sviluppa in modo magistrale il senso cristiano e le sue conseguenze
gnoseologiche e morali nella vita dell’uomo che ha conosciuto Cristo.
Nel primo
libro del De Spirituali amicitia, al cap. 20, troviamo infatti: L’amico è per così dire il custode
dell’amore e dell’animo stesso.
Curioso
sarebbe notare come la parola “custos” sia poi stata ampiamente ripresa dalla
riflessione filosofica esistenzialista, ma non è questa la sede.
Tenendo ferme
queste ultime considerazioni, ci si può ora collocare nella giusta dimensione
della amicizia intesa come il luogo dello scambio e della reciprocità.
b)
la chiamata alla prima amicizia ( ossia la
‘propedeutica dell’amore’)
Il § 3 della
DV mette in evidenza il progressivo manifestarsi di Dio lungo le epoche a
partire dalla vocazione di Abramo, passando per Mosè e i profeti, in modo da
preparare la via all’Evangelo che nell’evento salvifico dell’Incarnazione e
della Risurrezione di Gesù Cristo ha il suo culmine e raggiunge la sua
pienezza, Mediator simul et plenitudo
totius revelationis (§4), il Quale ‘Verba Dei loquitur’ (jo 3,34).
Ed è già
presente nella vocazione di Abramo, il padre delle moltitudini e il depositario
della Prima Alleanza, la scelta dell’amicizia come terreno di incontro tra il
divino e l’umano, almeno stando alle parole di Azaria nel cap. 3 v 35 del libro
del profeta Daniele: Propter Abraham
dilectum tuum, et Isaac, servum tuum, et Israel, sanctum tuum; per amore di
Abramo tuo amico ecc.
c)
Il ‘discorso dell’ora’ e la pienezza dell’economia della
Rivelazione
Le parole
pronunziate da Gesù, in Jo 15, 14-15, ci collocano in un orizzonte nuovo: iam non dicam vos servos… dicam amicos.
Il Redentore rende in qualche modo consapevoli i suoi apostoli che qualcosa di
grande e misterioso sta per compiersi: l’uomo sta per essere chiamato, dopo
essere stato riconciliato nel Sangue dell’Unigenito, a far nuovamente parte
della vita divina da cui la caduta dei Protoparenti aveva separata l’umanità.
Di qui il Mandatum novum, in cui
Cristo stesso si fa misura dell’Amore con cui l’uomo deve amare e accogliere: nemo habet dilectionem maiorem quam quis
animam suam dat pro amicis suis.
Dall’evento
della Risurrezione poi, che segue la Passione e la Croce, c’è un superamento totale
della condizione servile; ci si colloca pienamente nella dimensione dei figli
nel Figlio, riconciliati dal suo sacrificio in Croce, e ciò lo possiamo
desumere dall’uso, che per la prima volta fa la sua comparsa, dell’aggettivo
possessivo di prima persona, nelle parole stesse di Gesù alla Maddalena: vade autem ad fratres meos (Jo
20, 17).
Ci troviamo
quindi di fronte ad un cambiamento radicale e permanente che rende l’ oeconomia ergo cristiana utpote foedus novum et definitivum (§ 4).
Ancora, è
interessante notare come Aelredo al cap. 21 dica, a proposito del termine
‘foedus’: Amicitia igitur ipsa virtus est
qua talis dilectionis et dulcedinis foedere
ipsi animi copulantur et efficiuntur unum
de pluribus.
e più oltre: noi chiamiamo amici quelli a cui noi non
temiamo di affidare noi stessi.
Appare così in
modo chiaro come l’unica e perfetta mediazione derivi da Cristo ed in Cristo
abbia il suo compimento; di nuovo, le parole dell’ abate di Rievaulx, quasi
come una dossologia cristologica, sottolineano:
Quae omnia
a Christo incohantur
per Christum promoventur
in Christo perficiuntur
in quanto: Semetipsum amicus nobis praebentem (libro II
capp. 14-20)
II PARTE: “già non attend’io tua
dimanda/ s’io mi intuassi come me tu inmii” (Par. IX 80)
ossia: la Rivelazione come evento totalmente gratuito
Il verso dantesco che parafrasato
liberamente suonerebbe: “io non mi attendevo la tua parola, nemmeno se fossi
divenuto te al punto in cui tu hai scelto di entrare in me”, ci offre la
possibilità di una seconda riflessione, tenendo fisso sullo sfondo il panorama
dell’amicizia come sin’ ora l’abbiamo intesa: la Rivelazione come evento
totalmente gratuito, cioè non dovuto all’uomo da parte di Dio, ma come un atto
che nasce dalla libera volontà (non vos
elegistis Me) di riscattare l’uomo dalla condizione in cui il peccato lo
aveva precipitato, per elevarlo alla dignità
-
filiale (Padre nostro)
-
amicale (Jo 15)
-
sponsale ( Ap 22, 17)
Ciò si declina, potremmo dire, in
uno scambio libero e gratuito da parte di Dio, non appena di informazioni, ma
perfino di identità (la quale per altro è sempre determinata da una
relazione che la precede), secondo le parole di san Paolo in Ef 2 : non sono più io che vivo, ma Cristo che vive
in me. Lo stesso potremo, più concretamente, evidenziarlo, per esempio, nel
celebre episodio della vita di santa Caterina da Siena in cui Gesù sostituisce
il Suo Cuore a quello della Vergine senese costituendo nella creatura un cuore
nuovo che batte all’unisono col Suo. Resterebbe da sviluppare, in un'altra
sede, il rapporto di sponsalità tipico dell’esperienza mistica e il concetto di
‘conformazione’.
III PARTE: “tutti siam presti/ al
tuo piacer perché di noi ti gioi” (Par. VIII 32)
ossia: la ricezione da parte dell’uomo della Parola: l’uomo capace di
Dio
Ben consapevoli che la questione
dell’uomo ‘capax Dei’ potrebbe essere affrontata da un punto di partenza
completamente diverso, abbiamo scelto in questa sede una riflessione che prenda
le mosse non già dalla teologia dogmatica ma dalla Mistica speculativa, che
costituisce, a nostro modesto avviso, un avvio più diretto e più facilmente
comprensibile all’uomo come ‘capace del mistero’.
Tenendo conto di tutto ciò,
vorremmo ora considerare il cap. 135 del Dialogo
della Divina Provvidenza di santa Caterina da Siena nel quale, pur
mancandone una trattazione sistematica (non ne sarebbe nemmeno il compito), va
evidenziandosi una sorta di ‘psicologia’, intesa come uno sguardo attento
sull’anima, atta a rivelarne l’imprinting divino, trinitario perfino. E’ questa
dunque, la conoscenza dell’anima umana, la possibilità che è consegnata
all’uomo perché egli, attraverso un atto libero della propria volontà, possa
(citando la magnifica sentenza del catechismo di san Pio X, art. 13) conoscere, servire e amare Dio in questa
vita, per goderne eternamente nell’altra.
Le tre potenze dell’anima, già
conosciute per altro dalla filosofia greca, altro non sarebbero che il dono più
antico dato dalle Tre Persone Divine, nella unità della loro Natura, all’uomo
in quanto creato, infatti, ad immaginem
et similitudinem suam.
Stando alle parole pronunziate
dall’ Eterno Padre nel Dialogo, allo
stesso cap. 135, le tre potenze sarebbero così identificabili:
-
Memoria: dono con cui il Padre offre alle creature la
possibilità di ritenere i benefici da Lui ricevuti
-
Intelletto: dono del Figlio che abilita l’uomo a
comprendere il senso dei doni ricevuti ed elevandolo, in pari tempo, ad una
condizione nettamente superiore a quella animale
-
Volontà: dono dello Spirito Santo, che il Simbolo
chiama appunto Vivificantem, cioè
Colui che dà all’uomo la possibilità di agire secondo ciò che ha appreso e
ascoltato.
Alla luce di tutto questo, al
temine della presente sezione del nostro lavoro, possiamo considerare l’uomo come un
interlocutore pienamente capace di ascoltare quanto Dio abbia voluto comunicare,
in quanto dotato di un’anima fatta ad immagine della Santissima Trinità.
IV PARTE: “l’alta letizia/ che il
tuo parlar m’infonde” (Par. VII, 85)
ossia: la ‘necessità’ di trasmettere la Divina rivelazione
Gesù affida alla Chiesa il
compito di trasmettere ciò che Lui stesso ha comunicato e di cui aveva
preparato l’annuncio (§ 7) attraverso i Profeti. In questa linea, rifacendoci
alle parole stesse della Costituzione, la Rivelazione deve essere intesa in
maniera unitaria (motivo per cui l’assise conciliare rifiutò la dicitura de fontibus revelationis):
tamquam fontem
- et omnis salutaris
veritas
- et morum disciplinae
Tale visione unitaria produce
perciò uno sguardo che si rivolge alla Rivelazione, considerata a partire dalla
Sacra Tradizione e dalla Scrittura, non come a due binari paralleli su cui essa
si sviluppa e da cui essa procede, ma, usando ancora una volta le parole della
DV:
Haec igitur Sacra Traditio et Sacra utriusque Testamenti Scriptura
veluti speculum sunt in quo Ecclesia
in terris peregrinans contemplatur Deum, a quo omnia accipit, usquedum ad Eum
videndum facie ad faciem sicuti est perducatur.
E oltre (§ 10):
Sacra Traditio et Sacra Scriptura unum verbi Dei sacrum depositum
consistunt.
a)
Tradidi quod et accepi
Il § 8 ci presenta
una accurata riflessione sulla Tradizione. Le parole stesse di san Paolo sopra
citate, nella traduzione latina, ci possono illuminare molto a questo riguardo:
innanzi tutto i due verbi al perfetto si collocano su due piani temporali
diversi; accepi esprime un’azione
precedente, cronologicamente anteriore, già perfettamente compiuta, che sta a
monte, quasi come la causa della seconda. Tradidi,
dal canto suo, esprime come la conseguenza, ovvero la necessità, dopo avere
‘com-preso’, accolto il messaggio del vangelo, di trasmetterlo e, secondo
l’ampiezza semantica del verbo latino tradere,
‘affidare’. E’ da notare inoltre come dalla stessa radice verbale esca pure il
termine ‘tradizione’.
Ciò
considerato, è possibile evidenziare come, solo nella forma della trasmissione
e dell’affidamento, si realizzi pienamente lo scopo contenuto nell’annuncio
(accepi), quasi che la trasmissione, così intesa, ne divenisse in qualche modo
la conditio sine qua non.
La Tradizione
dunque va letta come vivificam praesentiam che rende lungo la
storia, continuamente, efficace l’annuncio di letizia che l’Evangelo porta con
sé.
b)
Il messaggio evangelico, riprendendo liberamente i
concetti espressi da E. Jungel, è allo stesso tempo un messaggio
-
informativo
-
performativo
tale dunque da
lasciare i destinatari incapaci di rimanere indifferenti all’incontro
con Cristo, incontro che nasconde in nuce la spinta intima e misteriosa alla
COMPARTECIPAZIONE, così come è espresso nel prologo del documento stesso, la
cui forte caratterizzazione giovannea sembra andare in questa direzione:
Adnuntiamus vobis vitam aeternam, quae erat
apud Patrem et apparuit nobis: quod vidimus et audivimus adnintiamus vobis, ut
et vos societatem habeatis nobiscum et societas nostra sit cum Patre et cum
Filio eius Iesu Christo.
Coloro che conoscono (ossia ne fanno ‘esperienza’, ‘theoestetica’) Cristo,
sentono un bisogno intimo e profondo di farsene comunicatori (adnuntiamus vobis…ut).
c)
La trasmissione della fede (adnuntiamus) è quella
dimensione che ci introduce primariamente nella conoscenza di Dio, nel suo
mistero ci comunione di Amore tra le Persone Divine (Mistero della SS Tinità) e,
da questa, della sua relazione libera e gratuita mediante la quale si rivolge
all’uomo come ad un amico.
Una sintesi o dossologia tratta
dal De catechizandis rudibus di S. Agotino, che per altro passa attraverso le virtù
teologali (infuse), può darci l’idea di questa dinamica di ascolto della Parola
che conforma la vita degli uomini mediante l’amore e l’amicizia e li mette in
grado di essere loro stessi forieri di questo messaggio per amore:
- audiendo credat
- credendo speret
- sperando amet
In questo contesto ecco che
ricuperiamo, in tutta la sua efficacia, l’impostazione teologica trinitaria espressa dal § 2:
placuit Deo…
per Christum…
in Spiritu Sancto.
ossia non solamente come evento
cristologico appena, ma trinitario.
d)
Trasmissione come garanzia del foedus novum in quanto alleanza
nuziale
digressione storica previa:
Già Pio XI, nell’enciclica ‘Casti
connubi’, aveva richiamato l’attenzione, riguardo alla coniugalità, al magnum sacramentum di sui si parla in
Ef. 5, 32:
Sacramentum hoc magnum est, ego autem dico in Christo et in Ecclesia
ciò in riferimento al rapporto
che lega Cristo alla sua Chiesa, un legame sponsale
intimo e misterioso che, come risponde Lumen gentium 41:
Ut foecunditatis
Matris Ecclesiae testes et cooperatores
existunt, in signum et partecipationem illius dilectionis qua Christus
Sponsam suam dilexit Seque pro ea tradidit.
E’ dunque inevitabile che
la piena comprensione dello Sposo divino e di quanto Egli abbia voluto
comunicare di Sé alla Sposa, generi uomini e donne (rigenerati appunto dall’
acqua e dal Sangue) che siano testimoni della compiuta adesione a questo
messaggio.
CONCLUDENDO
Alla luce di tutte queste
considerazioni, la Tradizione, la Scrittura e il Magistero della Chiesa
contribuiscono efficaciter a quello
che S. Pietro, nella sua prima lettera, definisce come la ‘meta della nostra
fede’: la salvezza delle anime (§10)
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE:
ENCHIRIDION VATICANUM VOL. I, ristampa 2006, EDB
AELREDO DI RIEVAULX, De spirituali amicitia, ed. Servitium, Troina 2005
S. CATERINA DA SIENA, Dialogo della divina Provvidenza, ed.
critica, Siena 1995, Cantagalli (cura
Giuliana Cavallini)
L. GIUSSANI, La forma dell’io: Dante e san Paolo, BUR 1996
KLAUS SCHATZ, Storia dei concilii, EDB rist. 2006
THOMAS DE AQUINO, Summa Theologica, textus crit. ex ed.
Leonina, San Paolo 1999
CONCILIORUM OECOMUNICORUM
DECRETA, EDB, Bologna 1991
M. TULLIUS CICERO, Laelius de amicitia, ed. Mondadori
DANTE ALIGHIERI, Divina commedia, ed. Sonzogno, Milano
1921
RICCARDO MERLANTE, Dizionario della Divina Commedia, Zanichelli
2004
I. BIFFI, La Sapienza che viene dell’alto, Jaka Book, Milano 2007
BIBLIA VULGATA (Sisto-clementina),
ed. San Paolo, Roma 1999
CATECHISMUS CATHOLICAE ECCLESIAE, LEV, Città del Vaticano 1992
E. W. VOLONTE’, Teologia del matrimonio, pro
manuscripto, Lugano 2012
[1] termine questo, la cui
area semantica, sempre a proposito della Rivelazione, viene ripreso dalla
Costituzione Dei Filius del Vaticano I, nel termine “consentaneum”
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