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venerdì 8 gennaio 2016

L’Amicizia come chiave ermeneutica della Divina Rivelazione
nei primi due capitoli della Dei Verbum

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La Pulzella propone la lettura di un suo antico lavoro universitario
circa il concetto di Amicizia intesa come virtù cristiana.
Si tratta di uno sguardo panoramico in compagnia di Dante, Cicerone e il Beato Aelredo abate.


(Dedicato a chi pensa che la Pulzella sia una reazionaria nostalgica e "non allineata" allo spirito conciliare, chiusa nei suoi preconcetti contro il Vat. II. Ella dimostra che, al contrario, ne è una buona conoscitrice e perciò si può permettere il lusso di tanta franchezza nel muovere qualche critica.)

I PARTE: “Come amico mi perdona/ se troppa sicurtà m’allarga il freno” (Purg. XII, 19ss)
ossia: l’uomo chiamato ad essere interlocutore di Dio attraverso l’amicizia

La costituzione dogmatica sulla Divina Rivelazione, dopo il proemio in cui la nota dominante sembra uscire da una forte caratterizzazione giovannea, su cui ritorneremo più avanti nel corso di questo nostro lavoro di ricerca, contiene, nel § 2 del primo capitolo il passaggio da cui prende le mosse la presente riflessione sulla amicizia come chiave ermeneutica della Divina Rivelazione: “ex abundantia caritatis suӕ homines tamquam amicos alloquitur”.
Tale passaggio del testo sembra essere la citazione e, in qualche modo, la rielaborazione in chiave unitaria che il documento conciliare fa di due passi del Vecchio e del Nuovo Testamento. Il primo, tratto da Ex. 33, 11 cita:
Loquetur autem Dominus ad Moysen facie ad faciem, sicut solet loqui homo ad amicum suum.
Il secondo, invece, collocato nel discorso di commiato di Gesù dai suoi apostoli in Jo. 15, 14-15, riferisce:
Iam non dicam vos vos servos, quia servus nescit quid faciat dominus eius. Vos autem dixi amicos: quia omnia quaecumque audivi a Patre meo, nota feci vobis.
Ecco dunque che ci vengono offerti alcuni validi spunti per un ulteriore riflessione:

a)      Perché la scelta dell’amicizia come terreno / spazio di incontro tra Dio e l’uomo?

Già Cicerone nel suo celebre dialogo sull’amicizia, il Laelius de amicitia, appunto, testo chiave e imprescindibile per altro per tutti coloro che nei secoli successivi si sono confrontati con questo tema, produce un afflato divenuto poi classico: Amicitia est rerum humanarum et divinarum cum benevolentia et caritate consentio[1].

In epoca Medievale, con ancora più acume ed in chiave cristiana, questa volta, il Beato Aelredo, abate cistercense di Rievaulx, ritorna sul tema già svolto dall’Arpinate e ne sviluppa in modo magistrale il senso cristiano e le sue conseguenze gnoseologiche e morali nella vita dell’uomo che ha conosciuto Cristo.
Nel primo libro del De Spirituali amicitia, al cap. 20, troviamo infatti: L’amico è per così dire il custode dell’amore e dell’animo stesso.
Curioso sarebbe notare come la parola “custos” sia poi stata ampiamente ripresa dalla riflessione filosofica esistenzialista, ma non è questa la sede.

Tenendo ferme queste ultime considerazioni, ci si può ora collocare nella giusta dimensione della amicizia intesa come il luogo dello scambio e della reciprocità.

b)      la chiamata alla prima amicizia ( ossia la ‘propedeutica dell’amore’)

Il § 3 della DV mette in evidenza il progressivo manifestarsi di Dio lungo le epoche a partire dalla vocazione di Abramo, passando per Mosè e i profeti, in modo da preparare la via all’Evangelo che nell’evento salvifico dell’Incarnazione e della Risurrezione di Gesù Cristo ha il suo culmine e raggiunge la sua pienezza, Mediator simul et plenitudo totius revelationis (§4), il Quale ‘Verba Dei loquitur’ (jo 3,34).
Ed è già presente nella vocazione di Abramo, il padre delle moltitudini e il depositario della Prima Alleanza, la scelta dell’amicizia come terreno di incontro tra il divino e l’umano, almeno stando alle parole di Azaria nel cap. 3 v 35 del libro del profeta Daniele: Propter Abraham dilectum tuum, et Isaac, servum tuum, et Israel, sanctum tuum; per amore di Abramo tuo amico ecc.

c)      Il ‘discorso dell’ora’ e la pienezza dell’economia della Rivelazione

Le parole pronunziate da Gesù, in Jo 15, 14-15, ci collocano in un orizzonte nuovo: iam non dicam vos servos… dicam amicos. Il Redentore rende in qualche modo consapevoli i suoi apostoli che qualcosa di grande e misterioso sta per compiersi: l’uomo sta per essere chiamato, dopo essere stato riconciliato nel Sangue dell’Unigenito, a far nuovamente parte della vita divina da cui la caduta dei Protoparenti aveva separata l’umanità. Di qui il Mandatum novum, in cui Cristo stesso si fa misura dell’Amore con cui l’uomo deve amare e accogliere: nemo habet dilectionem maiorem quam quis animam suam dat pro amicis suis.
Dall’evento della Risurrezione poi, che segue la Passione e la Croce, c’è un superamento totale della condizione servile; ci si colloca pienamente nella dimensione dei figli nel Figlio, riconciliati dal suo sacrificio in Croce, e ciò lo possiamo desumere dall’uso, che per la prima volta fa la sua comparsa, dell’aggettivo possessivo di prima persona, nelle parole stesse di Gesù alla Maddalena: vade autem ad fratres meos (Jo 20, 17).
Ci troviamo quindi di fronte ad un cambiamento radicale e permanente che rende l’ oeconomia ergo cristiana utpote foedus novum et definitivum (§ 4).

Ancora, è interessante notare come Aelredo al cap. 21 dica, a proposito del termine ‘foedus’: Amicitia igitur ipsa virtus est qua talis dilectionis et dulcedinis foedere ipsi animi copulantur et efficiuntur unum de pluribus.

e più oltre: noi chiamiamo amici quelli a cui noi non temiamo di affidare noi stessi.

Appare così in modo chiaro come l’unica e perfetta mediazione derivi da Cristo ed in Cristo abbia il suo compimento; di nuovo, le parole dell’ abate di Rievaulx, quasi come una dossologia cristologica, sottolineano:

Quae omnia
a Christo incohantur
per Christum promoventur
in Christo perficiuntur

in quanto: Semetipsum amicus nobis praebentem (libro II capp. 14-20)

II PARTE: “già non attend’io tua dimanda/ s’io mi intuassi come me tu inmii” (Par. IX 80)
ossia: la Rivelazione come evento totalmente gratuito

Il verso dantesco che parafrasato liberamente suonerebbe: “io non mi attendevo la tua parola, nemmeno se fossi divenuto te al punto in cui tu hai scelto di entrare in me”, ci offre la possibilità di una seconda riflessione, tenendo fisso sullo sfondo il panorama dell’amicizia come sin’ ora l’abbiamo intesa: la Rivelazione come evento totalmente gratuito, cioè non dovuto all’uomo da parte di Dio, ma come un atto che nasce dalla libera volontà (non vos elegistis Me) di riscattare l’uomo dalla condizione in cui il peccato lo aveva precipitato, per elevarlo alla dignità

-          filiale (Padre nostro)
-          amicale (Jo 15)
-          sponsale ( Ap 22, 17)

Ciò si declina, potremmo dire, in uno scambio libero e gratuito da parte di Dio, non appena di informazioni, ma perfino di identità (la quale per altro è sempre determinata da una relazione che la precede), secondo le parole di san Paolo in Ef 2 : non sono più io che vivo, ma Cristo che vive in me. Lo stesso potremo, più concretamente, evidenziarlo, per esempio, nel celebre episodio della vita di santa Caterina da Siena in cui Gesù sostituisce il Suo Cuore a quello della Vergine senese costituendo nella creatura un cuore nuovo che batte all’unisono col Suo. Resterebbe da sviluppare, in un'altra sede, il rapporto di sponsalità tipico dell’esperienza mistica e il concetto di ‘conformazione’.

III PARTE: “tutti siam presti/ al tuo piacer perché di noi ti gioi” (Par. VIII 32)
ossia: la ricezione da parte dell’uomo della Parola: l’uomo capace di Dio

Ben consapevoli che la questione dell’uomo ‘capax Dei’ potrebbe essere affrontata da un punto di partenza completamente diverso, abbiamo scelto in questa sede una riflessione che prenda le mosse non già dalla teologia dogmatica ma dalla Mistica speculativa, che costituisce, a nostro modesto avviso, un avvio più diretto e più facilmente comprensibile all’uomo come ‘capace del mistero’.
Tenendo conto di tutto ciò, vorremmo ora considerare il cap. 135 del Dialogo della Divina Provvidenza di santa Caterina da Siena nel quale, pur mancandone una trattazione sistematica (non ne sarebbe nemmeno il compito), va evidenziandosi una sorta di ‘psicologia’, intesa come uno sguardo attento sull’anima, atta a rivelarne l’imprinting divino, trinitario perfino. E’ questa dunque, la conoscenza dell’anima umana, la possibilità che è consegnata all’uomo perché egli, attraverso un atto libero della propria volontà, possa (citando la magnifica sentenza del catechismo di san Pio X, art. 13) conoscere, servire e amare Dio in questa vita, per goderne eternamente nell’altra.
Le tre potenze dell’anima, già conosciute per altro dalla filosofia greca, altro non sarebbero che il dono più antico dato dalle Tre Persone Divine, nella unità della loro Natura, all’uomo in quanto creato, infatti, ad immaginem et similitudinem suam.
Stando alle parole pronunziate dall’ Eterno Padre nel Dialogo, allo stesso cap. 135, le tre potenze sarebbero così identificabili:

-          Memoria: dono con cui il Padre offre alle creature la possibilità di ritenere i benefici da Lui ricevuti
-          Intelletto: dono del Figlio che abilita l’uomo a comprendere il senso dei doni ricevuti ed elevandolo, in pari tempo, ad una condizione nettamente superiore a quella animale
-          Volontà: dono dello Spirito Santo, che il Simbolo chiama appunto Vivificantem, cioè Colui che dà all’uomo la possibilità di agire secondo ciò che ha appreso e ascoltato.

Alla luce di tutto questo, al temine della presente sezione del nostro lavoro,  possiamo considerare l’uomo come un interlocutore pienamente capace di ascoltare quanto Dio abbia voluto comunicare, in quanto dotato di un’anima fatta ad immagine della Santissima Trinità.

IV PARTE: “l’alta letizia/ che il tuo parlar m’infonde” (Par. VII, 85)
ossia: la ‘necessità’ di trasmettere la Divina rivelazione

Gesù affida alla Chiesa il compito di trasmettere ciò che Lui stesso ha comunicato e di cui aveva preparato l’annuncio (§ 7) attraverso i Profeti. In questa linea, rifacendoci alle parole stesse della Costituzione, la Rivelazione deve essere intesa in maniera unitaria (motivo per cui l’assise conciliare rifiutò la dicitura de fontibus revelationis):

tamquam fontem
      - et omnis salutaris veritas
- et morum disciplinae

Tale visione unitaria produce perciò uno sguardo che si rivolge alla Rivelazione, considerata a partire dalla Sacra Tradizione e dalla Scrittura, non come a due binari paralleli su cui essa si sviluppa e da cui essa procede, ma, usando ancora una volta le parole della DV:

Haec igitur Sacra Traditio et Sacra utriusque Testamenti Scriptura veluti speculum sunt in quo Ecclesia in terris peregrinans contemplatur Deum, a quo omnia accipit, usquedum ad Eum videndum facie ad faciem sicuti est perducatur.

E oltre (§ 10):

Sacra Traditio et Sacra Scriptura unum verbi Dei sacrum depositum consistunt.

a)      Tradidi quod et accepi

Il § 8 ci presenta una accurata riflessione sulla Tradizione. Le parole stesse di san Paolo sopra citate, nella traduzione latina, ci possono illuminare molto a questo riguardo: innanzi tutto i due verbi al perfetto si collocano su due piani temporali diversi; accepi esprime un’azione precedente, cronologicamente anteriore, già perfettamente compiuta, che sta a monte, quasi come la causa della seconda. Tradidi, dal canto suo, esprime come la conseguenza, ovvero la necessità, dopo avere ‘com-preso’, accolto il messaggio del vangelo, di trasmetterlo e, secondo l’ampiezza semantica del verbo latino tradere, ‘affidare’. E’ da notare inoltre come dalla stessa radice verbale esca pure il termine ‘tradizione’.
Ciò considerato, è possibile evidenziare come, solo nella forma della trasmissione e dell’affidamento, si realizzi pienamente lo scopo contenuto nell’annuncio (accepi), quasi che la trasmissione, così intesa, ne divenisse in qualche modo la conditio sine qua non.
La Tradizione dunque va letta come  vivificam praesentiam che rende lungo la storia, continuamente, efficace l’annuncio di letizia che l’Evangelo porta con sé.

b)      Il messaggio evangelico, riprendendo liberamente i concetti espressi da E. Jungel, è allo stesso tempo un messaggio

-          informativo
-          performativo

tale dunque da lasciare i destinatari incapaci di rimanere indifferenti all’incontro con Cristo, incontro che nasconde in nuce la spinta intima e misteriosa alla COMPARTECIPAZIONE, così come è espresso nel prologo del documento stesso, la cui forte caratterizzazione giovannea sembra andare in questa direzione:

Adnuntiamus vobis vitam aeternam, quae erat apud Patrem et apparuit nobis: quod vidimus et audivimus adnintiamus vobis, ut et vos societatem habeatis nobiscum et societas nostra sit cum Patre et cum Filio eius Iesu Christo.

Coloro che conoscono (ossia ne fanno ‘esperienza’, ‘theoestetica’) Cristo, sentono un bisogno intimo e profondo di farsene comunicatori (adnuntiamus vobis…ut).

c)      La trasmissione della fede (adnuntiamus) è quella dimensione che ci introduce primariamente nella conoscenza di Dio, nel suo mistero ci comunione di Amore tra le Persone Divine (Mistero della SS Tinità) e, da questa, della sua relazione libera e gratuita mediante la quale si rivolge all’uomo come ad un amico.

Una sintesi o dossologia tratta dal De catechizandis rudibus di S. Agotino, che per altro passa attraverso le virtù teologali (infuse), può darci l’idea di questa dinamica di ascolto della Parola che conforma la vita degli uomini mediante l’amore e l’amicizia e li mette in grado di essere loro stessi forieri di questo messaggio per amore:

- audiendo credat
- credendo speret
- sperando amet

In questo contesto ecco che ricuperiamo, in tutta la sua efficacia, l’impostazione  teologica trinitaria espressa dal § 2:

placuit Deo…
per Christum…
in Spiritu Sancto.

ossia non solamente come evento cristologico appena, ma trinitario.


d)     Trasmissione come garanzia del foedus novum in quanto alleanza nuziale

digressione storica previa:
Già Pio XI, nell’enciclica ‘Casti connubi’, aveva richiamato l’attenzione, riguardo alla coniugalità, al magnum sacramentum di sui si parla in Ef. 5, 32:

Sacramentum hoc magnum est, ego autem dico in Christo et in Ecclesia

ciò in riferimento al rapporto che lega Cristo alla sua Chiesa, un legame sponsale intimo e misterioso che, come risponde Lumen gentium 41:

Ut foecunditatis Matris Ecclesiae testes et cooperatores  existunt, in signum et partecipationem illius dilectionis qua Christus Sponsam suam dilexit Seque pro ea tradidit.

E’ dunque inevitabile che la piena comprensione dello Sposo divino e di quanto Egli abbia voluto comunicare di Sé alla Sposa, generi uomini e donne (rigenerati appunto dall’ acqua e dal Sangue) che siano testimoni della compiuta adesione a questo messaggio.

CONCLUDENDO

Alla luce di tutte queste considerazioni, la Tradizione, la Scrittura e il Magistero della Chiesa contribuiscono efficaciter a quello che S. Pietro, nella sua prima lettera, definisce come la ‘meta della nostra fede’: la salvezza delle anime (§10)
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE:


ENCHIRIDION VATICANUM VOL. I, ristampa 2006, EDB
AELREDO DI RIEVAULX, De spirituali amicitia, ed. Servitium, Troina 2005
S. CATERINA DA SIENA, Dialogo della divina Provvidenza, ed. critica, Siena 1995, Cantagalli (cura Giuliana Cavallini)
L. GIUSSANI, La forma dell’io: Dante e san Paolo, BUR 1996
KLAUS SCHATZ, Storia dei concilii, EDB rist. 2006
THOMAS DE AQUINO, Summa Theologica, textus crit. ex ed. Leonina, San Paolo 1999
CONCILIORUM OECOMUNICORUM DECRETA, EDB,  Bologna 1991
M. TULLIUS CICERO, Laelius de amicitia, ed. Mondadori
DANTE ALIGHIERI, Divina commedia, ed. Sonzogno, Milano 1921
RICCARDO MERLANTE, Dizionario della Divina Commedia, Zanichelli 2004
I. BIFFI, La Sapienza che viene dell’alto, Jaka Book, Milano 2007
BIBLIA VULGATA (Sisto-clementina), ed. San Paolo, Roma 1999
CATECHISMUS CATHOLICAE  ECCLESIAE, LEV, Città del Vaticano 1992
E. W. VOLONTE’, Teologia del matrimonio, pro manuscripto, Lugano 2012







[1] termine questo, la cui area semantica, sempre a proposito della Rivelazione, viene ripreso dalla Costituzione Dei Filius del Vaticano I, nel termine “consentaneum”

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